Nei precedenti articoli riguardanti la relazione molto particolare tra l’apicoltura negli Stati Uniti d’America e i servizi di impollinazione, ho toccato molto velocemente l’argomento dell’esasperazione della vulnerabilità dell’ape mellifera. Stavolta voglio portarvi in un viaggio che attraversa il rapporto complicato tra api e scienza, guardando al caso della CCD.
COS’E’ LA CCD
CCD è un acronimo che in inglese sta per Colony Collapse Disorder e che in italiano si traduce con sindrome da spopolamento dell’alveare.
E’ caratterizzata dalla perdita improvvisa della popolazione adulta dell’alveare. Non è affatto una semplice sciamatura, in quanto TUTTE le api operaie adulte volano via dalla loro casa senza più farsi trovare, lasciando indietro la regina e la covata.
In una situazione normale gli alveari così spopolati contengono miele e, senza alcuna guardiana a sua difesa, diventano un sicuro target del cosiddetto fenomeno del saccheggio. In altre parole, le api delle famiglie vicine vanno a “rubare” quanto lasciato disatteso.
Nei casi di CCD questo non accade: né le altre api né altri insetti potenzialmente interessati (tarma della cera, vespe etc…) sembrano in alcun modo propensi a saccheggiare quanto lasciato dietro.
In aggiunta le analisi anatomiche e molecolari della covata degli alveari affetti da CCD dimostrano la presenza di livelli molto alti di multiple infezioni virali e fungine, come se la famiglia fosse stata affetta da un cocktail di diverse malattie.
I primi casi vennero registrati durante le prime fasi invernali del 2006 e da quell’anno, oltre al monitoraggio costante della CCD, la mortalità delle api americane viene tenuta sotto stretta sorveglianza sia dagli organi federali che da progetti non-profit di natura scientifica.
UNA MORTALITA’ ANOMALA
Nell’inverno del 2006/2007 gli apicoltori americani soffrirono di una perdita media delle loro colonie del 38%: si stima che su un totale nazionale di circa 2,4 milioni di alveari, vennero perse tra 651.000 e 875.000 famiglie.
Durante l’anno 2020-2021, le perdite annuali sono state riportate al 45,5%. Nel grafico qui sotto potete vedere l’andamento delle perdite estive, invernali ed annuali dal 2008 al 2021.
Fonte: Bee Informed Partnership
Come potrete capire, una perdita di quasi la metà dei propri alveari non può essere giudicata come normale. Dover rimpiazzare quasi ogni anno una larga fetta dei propri alveari ha un costo monetario, nonché umano, estremamente alto.
LE CAUSE DELLA CCD
Nonostante siano passati più di 10 anni dai primi casi di CCD ad oggi non esiste una linea comune che indichi con certezza quale sia la causa (o le cause) di questa sindrome.
C’è chi dice siano i pesticidi, c’è chi lo esclude. C’è chi vede nella varroa e nelle conseguenze della sua infestazione l’unico grande male di questa apicoltura.
C’è chi addita le malattie dell’alveare, c’è chi non ha mai avuto alveari più sani di così da quanto è scoppiata la CCD. C’è chi pensa che tutti i problemi di cui parlano gli apicoltori siano frutto della loro totale incapacità.
A rimetterci, in questo clima di incertezza, sono le api, anche quando le risposte arrivano da organi ufficiali.
Gli attori principali di questa tragedia contemporanea americana sono tre: gli apicoltori, la scienza ufficiale, le industrie agrochimiche e l’altra scienza.
GLI APICOLTORI AMERICANI DISCUTONO
Si parte già male quando non c’è accordo nemmeno tra gli attori su cui si scarica la maggior parte delle conseguenze negative di questa situazione.
Una parte degli apicoltori americani ritengono che la causa fondamentale della CCD sia l’interazione tra i parassiti ed i patogeni, vale a dire la varroa e le malattie ad essa connessa. Il nemico per eccellenza delle api mellifere, infatti, danneggia l’immunità della famiglia, aumentando lo stress e di conseguenza anche la pericolosità di batteri e virus.
La situazione, già esasperata dal cambiamento climatico, dalle monocolture e dall’uso di pesticidi, sfocia velocemente nella CCD. I pesticidi additati da questi apicoltori non sono però quelli ad uso agricolo ma apistico, utilizzati contro la stessa varroa. Specialmente se usati male o addirittura preparati in casa, peggiorerebbero esponenzialmente lo stress a cui sono sottoposte le api.
Un altro gruppo, specchio della cultura imprenditoriale americana, afferma che coloro che hanno sofferto la CCD o che hanno alti tassi di mortalità siano semplicemente degli incapaci. Secondo loro basterebbe adattare le metodologie di lavoro alle situazioni in cui si trovano ad operare per risolvere i problemi dell’apicoltura. Non lo fanno perché fondamentalmente preferiscono campare con i sussidi statali per far fronte alle perdite degli alveari.
Se smettessero di lottare contro le industrie agrochimiche e si focalizzassero su come cambiare la propria situazione (e quindi fare soldi) la loro situazione cambierebbe molto velocemente.
APICOLTORI VS NEONICOTINOIDI
L’ultima e larga fetta di apicoltori americani crede che il problema principale siano i neonicotinoidi, vale a dire i pesticidi sistemici più utilizzati al momento in agricoltura.
Sono soprattutto coloro che lavorano con i contratti di impollinazione a sollevare la connessione tra pesticidi sistemici e un’alta mortalità delle api.
Il punto di forza degli apicoltori è che la loro conoscenza si sviluppa direttamente in reali condizioni in campo: durante tutta la stagione lavorano, osservano e raccolgono dati, ed hanno perciò la capacità di elaborare un grande numero di variabili diverse allo scopo di avere una visione molto più ampia della salute delle proprie famiglie.
Attraverso la propria esperienza e la raccolta di dati svolta direttamente in tempo reale e sul campo, gli apicoltori avrebbero collegato l’insorgenza della CCD all’esposizione delle proprie api, specialmente durante i servizi di impollinazione, a piantagioni curate con i neonicotinoidi.
Il fatto è che i neonicotinoidi non uccidono l’ape nello stesso istante in cui avviene il loro incontro (effetto letale), ma la indeboliscono (effetto sub-letale). L’ape rientra quindi nell’alveare, portando con sé polline e/o nettare contaminati da queste sostanze. Il lento accumulo all’interno dell’arnia porterebbe al peggioramento delle condizioni di vita dell’intera famiglia e, nel tempo, alla CCD.
David Hackenberg, apicoltore commerciale veterano nonché il primo a notificare ai ricercatore dei casi di CCD nei suoi apiari, scrisse nel 2009 una lettera all’EPA, l’agenzia responsabile dell’approvazione e della revisione degli agrofarmaci. Egli parla proprio di come, nell’autunno del 2004, solo parte dei suoi alveari (quelli esposti al neonicotinoide imidacloprid durante l’impollinazione di zucche e mele) subirono perdite ricondotte poi alla sindrome della CCD. Lo stesso alto tasso di mortalità (75-80%) fu rilevato anche negli autunni successivi solo ed esclusivamente nelle arnie utilizzate per i servizi di impollinazione.
COSA CHIEDONO GLI APICOLTORI ALLO STATO?
Gli apicoltori chiederebbero al governo federale di limitare o addirittura sospendere totalmente l’uso dei neonicotinoidi, in quanto sono un rischio per la salute delle loro api e di conseguenza per la sopravvivenza dell’intero settore apistico.
Spingerebbero quindi le istituzioni, soprattutto l’EPA, ad adottare un approccio precauzionale nei confronti dei pesticidi. In altre parole: finché queste sostanze non sono definitivamente scagionate da ogni possibile colpa, sarebbe meglio non metterle sul mercato o limitarne molto l’uso.
Gli apicoltori commerciali americani chiederebbero anche più ricerca scientifica a lungo termine, che sia progettata in modo da calcolare gli effetti dovuti all’accumulo di queste sostanze nell’alveare, nonché valutare gli effetti subletali sia in laboratorio che in condizioni di campo il più realistiche possibili.
Se le api sono deboli per colpa dei pesticidi, non possono produrre miele né essere efficienti durante i servizi di impollinazione. Questo causa un effetto a cascata le cui conseguenze sono facilmente comprensibili.
Ad ogni modo, il punto di forza degli apicoltori di cui vi ho parlato qualche paragrafo sopra è un’arma a doppio taglio…
Le proteste degli apicoltori americani, le lettere all’EPA e i dati raccolti dalle loro osservazioni in situ sembrano non avere rilevanza.
NEMMENO GOOGLE SA TUTTO DI TUTTO
La ricerca della conoscenza è un processo che porta con sé anche la produzione di ignoranza. In altre parole: quando voglio esplorare a fondo un argomento, è letteralmente impossibile studiarlo al 100% perché adotterò sempre una selezione dei dati che mi porterà a lasciare indietro un pezzo della storia.
L’ignoranza non è sempre un’omissione volontaria fatta con malizia, perché semplicemente non si può studiare TUTTO. Sono le decisioni strategiche che portano ad ignorare certi dati piuttosto che altri ad avere conseguenze sulla qualità e sulla quantità della nostra conoscenza finale.
Bisogna quindi controllare come l’ignoranza viene prodotta attivamente, nonché mantenuta e manipolata da parte dei portatori di interesse coinvolti.
Coloro che parlano di agnotologia, cioè lo studio della mancanza di conoscenza e di certezze, hanno dato il nome di “undone science” (scienza non fatta) alla ricerca che i movimenti sociali hanno identificato come importante a livello sociale ma che è rimasta in sospeso perché ad esempio mancano finanziamenti, è stata lasciata volutamente incompleta o è generalmente ignorata dagli scienziati.
Questa ricerca può rimanere in sospeso anche in parte perché non ci sono metodi scientifici sufficientemente sviluppati o consoni per portarla avanti. Si parla soprattutto della metodologia di raccolta dei dati, gli esperimenti, la struttura della progettazione sperimentale e gli standard di prova.
Questi strumenti non cadono dall’alto, ma sono frutto dell’evoluzione della storia della scienza, di scale di priorità, di scelte sociali ed anche politiche. Si parla quindi di un set di pratiche e norme di ricerca scientifica che sono state formulate nel tempo e che si tengono in piedi grazie al consenso generale.
Per essere più chiara, la conoscenza scientifica che viene prodotta seguendo i metodi storicamente e socialmente accettati viene ritenuta “vera scienza” ed è quindi considerata legittima e credibile. Questa “vera scienza” è fatta da esperimenti controllati e ripetibili che testano rigorosamente le ipotesi attraverso un metro di giudizio totalmente oggettivo.
Non tutti possono produrre questa “vera scienza”, perché solo alcuni attori vengono visti come esperti e portatori di corretta conoscenza.
LA “VERA SCIENZA” NEGLI USA
Cercando di applicare quanto appena detto al caso delle api e della CCD, gli apicoltori non vengono considerati come legittimi portatori di conoscenza ed i dati da loro prodotti, nonché i risultati che ne conseguono, non sarebbero attendibili.
Il loro metodo di ricerca, basato sulle osservazioni in tempo reale e in campo, è ritenuto “informale” e perciò incompatibile con il tipo di produzione di conoscenza che viene richiesto dalle istituzioni, vale a dire l’EPA, per determinare se i pesticidi neonicotinoidi debbano essere ritirati dal mercato o meno.
In altre parole, non seguono i metodi della “vera scienza” ma un loro set di pratiche e metodi di ricerca che non vengono ritenute legittime dagli altri portatori di interesse. Le loro rilevazioni vengono definite come “aneddotiche ed esperienziali” e non sono quindi utilizzabili dall’EPA per prendere una decisione sui neonicotinoidi.
Quale sarebbe quindi la “vera scienza” negli Stati Uniti d’America? Partiamo dalle basi storiche.
ALLE BASI DELLA SCIENZA
Negli Stati Uniti l’entomologia, in sostanza lo studio degli insetti, si sviluppò alla fine del 19° secolo come disciplina scientifica nell’ambito della ricerca agronomica. Quasi fin da subito il suo scopo principale era il controllo dei parassiti che danneggiavano la produzione agricola attraverso l’impiego di sostanze chimiche.
Più o meno contemporaneamente si sviluppò anche la ricerca in campo apistico, soprattutto per quanto riguarda la gestione dell’alveare. Bisognava aumentare la produzione di miele e gestire i parassiti ed i patogeni che disturbavano la salute delle api.
Dall’inizio del ‘900 in poi, con l’aumento delle grandi monocolture e dell’industrializzazione dell’agricoltura, le sostanze utilizzate furono principalmente gli organofosfati che venivano spruzzati direttamente sui campi dagli aerei.
Questi pesticidi non facevano la minima distinzione tra i cosiddetti insetti target, vale a dire gli animali che avrebbero dovuto uccidere, e tutte le altre forme di vita casualmente coinvolte, quali le api e tutti gli altri impollinatori.
Mentre gli agricoltori si rivolgevano agli entomologi ed alla crescente industria agrochimica per tutelare il proprio raccolto, gli apicoltori iniziarono a chiedere aiuto ai ricercatori in campo apistico per capire meglio la connessione tra l’applicazione di pesticidi e la morte delle proprie api.
I primi studi degli “scienziati delle api” furono basati su parametri tossicologici, presi direttamente in prestito dai colleghi entomologi, per comprendere quanto i pesticidi in uso fossero letali per le api.
Gli studi in laboratorio arrivarono così a stabilire gli effetti letali degli insetticidi: la dose letale, le curve di mortalità relative al tempo, al dosaggio ed alla concentrazione, ed anche i range entro i quali non ci sono effetti letali osservabili.
Tutto questo aveva quindi lo scopo di dare agli apicoltori ed agli agricoltori informazioni pratiche su come minimizzare i danni alle api dovuti all’applicazione dei pesticidi.
In altre parole, gli scienziati apistici ripresero le pratiche e norme di ricerca scientifica utilizzate dagli entomologi agricoli per sviluppare pesticidi efficaci nel controllare gli insetti parassiti, studiando gli effetti di quelle stesse sostanze anche sulle api e sugli altri impollinatori.
Questi studi erano programmati appositamente per individuare effetti rapidi e letali sui parassiti target. Il loro approccio di base era causale e basato sullo studio dei fattori in maniera isolata.
Gli effetti subletali o dovuti a piccole dosi di queste sostanze, anche in interazione con altri fattori ambientali (altri pesticidi, patogeni etc…), che potrebbero avere conseguenze nel lungo periodo ed anche su multiple generazioni, non erano un problema per i ricercatori.
Nel tempo, questo tipo di ricerca è stata storicamente e socialmente riconosciuta come prevalente sia tra gli entomologi impiegati in campo agricolo, sia per gli scienziati apistici ed i tossicologi.
SCIENZA INFATTIBILE
Gli esperimenti americani svolti direttamente sul campo sugli alveari sono spesso programmati usando degli standard che sono stabiliti in laboratorio sulle singole api, e non sull’intera arnia. In aggiunta, il calcolo della dose letale 50 e degli effetti non osservabili non tengono conto del fatto che l’ape mellifera si ritrova ad essere contaminata da più sostanze, non soltanto da quella presa in considerazione nella specifica ricerca.
Gli studi non sarebbero quindi in grado di testare scenari plausibili dove i neonicotinoidi, presi da soli, potrebbero non causare direttamente direttamente la CCD ma vi contribuiscono a piccole dosi attraverso una complessa interazione con moltissimi altri fattori ambientali.
Sebbene ci sia quindi generale consenso sul fatto che la CCD sia un fenomeno complesso e multifattoriale che riguarda l’intera arnia, la ricerca sperimentale basata sulle norme e pratiche di ricerca storicamente istituzionalizzate è programmata per cercare ed isolare i singoli fattori ed i loro ruoli diretti e causali.
L’incapacità dell’attuale ricerca di comprendere la complessità ambientale in cui vive l’ape mellifera crea una situazione di “scienza infattibile” (undoable science).
UNO STUDIO FONDAMENTALE
Prendiamo in considerazione uno degli studi più importanti e più citati nell’ambito del collegamento tra neonicotinoidi e morte delle api. In questo studio, effettuato in campo aperto, gli alveari sono stati esposti per tre settimane a nuove piantagioni di colza, i cui semi erano stati trattati con varie dosi del neonicotinoide chiamato clothianidin.
Dopo le tre settimane, gli alveari furono spostati in un campo dove vennero monitorati per altri mesi. A seguito della rilevazione di alcuni dati riconducibili allo stato di salute generale della famiglia, lo studio conclude che non c’era alcuna differenza statisticamente significativa tra gli alveari situati nei campi trattati e quelli non trattati. In altre parole, tutte le api stavano bene e non c’era motivo di preoccuparsi.
In quale modo questo studio ha fallito nel provare gli effetti del pesticida sulle api? Gli alveari situati nei campi trattati e in quelli non trattati erano distanti tra loro di solo 300 metri. Come forse già saprete, le api bottinatrici volano per distanze nettamente superiori a quelle prese in considerazione per questo studio e frequentano le fioriture che vogliono.
Il risultato è che le api degli alveari non trattati, sebbene non abbiano ricevuto alcuna dose di clothianidin durante l’esperimento, potrebbero aver comune bottinato nei campi trattati in quanto molto vicini a casa loro, e viceversa. Tutti gli alveari avevano quindi accesso sia ai campi trattati coi pesticidi sia a quelli non trattati.
Difatti quantità di clothianidin sono state riscontrate in TUTTE le arnie.
I ricercatori che hanno progettato questo studio hanno utilizzato tutte le pratiche e norme di ricerca storicamente accettate come legittime ed hanno prodotto uno studio che, a distanza di più di 10 anni, è ancora considerato valido dalle istituzioni americane.
Allo stesso tempo hanno sorvolato la realtà dei fatti, ossia che le api volano a grandi distanze e bottinano su quello che vogliono, sottovalutando così la complessità dello studiare le api mellifere in campo aperto.
VE NE AVEVAMO GIA’ PARLATO!
In un articolo dello scorso anno, Luca vi ha parlato di uno studio effettuato in Spagna su 180 arnie, durato 3 anni, e nel quale sono state testate due sostanze: thiamethoxam e clothianidin.
Anche in questo caso si rilevano alcune problematiche:
- non ci vengono mostrate eventuali tracce dei due pesticidi presenti nel campione di controllo;
- in merito alla distanza tra gli apiari destinati ai vari gruppi di studio, si parla di “appezzamenti da 2 ettari separati almeno di 2 km qualora possibile, isolati da altre coltivazioni o fioriture attrattive per le api”.
Qualora possibile? Se non fosse stato possibile, quanto sarebbero stati vicini i campi? E in che modo questa possibile vicinanza potrebbe aver influito sul risultato finale dell’esperimento?
LA COMPLESSITA’ DELL’AMBIENTE ALVEARE
Le api mellifere e gli altri impollinatori sono continuamente esposti ad una miriade di fattori ambientali diversi, tra cui le pratiche apistiche utilizzate da chi se ne prende cura, tanti agrofarmaci agricoli ed apistici di tipo diverso, le condizioni climatiche e così via.
La stessa organizzazione sociale delle mellifere è un insieme di comportamenti tra loro interconnessi, tuttora non facilmente spiegabili o del tutto compresi.
Una scienza che cerca di isolare tutti questi fattori e di mantenere il controllo su alcuni di essi in modo da poterli studiare singolarmente e senza che ci siano influenze tra di loro, sia in esperimenti in campo che in laboratorio, non riuscirà mai a comprendere una situazione estremamente complessa e piena di interazioni diverse come quella dell’alveare.
Sicuramente troverà le sue risposte e queste saranno ben accettate dalla comunità scientifica accademica e dalle istituzioni. Creerà quindi conoscenza ma, indubbiamente, creerà anche una certa ignoranza in quanto certe problematiche verranno tralasciate.
Nel caso della CCD, gli esperimenti fatti in campo seguono un modello sperimentale che li rende in automatico inadatti per rilevare gli effetti indiretti e subletali dei pesticidi ed anche quelli dovuti alle loro interazioni con altre variabili ambientali (altri pesticidi, patogeni, parassiti…). Sono proprio questi risultati ad essere additati quali colpevoli.
La “vera scienza” preferisce adottare un approccio falso negativo piuttosto che falso positivo: non riesce a provare che i neonicotinoidi abbiano un qualche ruolo nella questione della CCD e della mortalità degli alveari, quindi non ha alcun motivo per chiedere una sospensione o una limitazione del loro uso.
L’agenzia EPA, grazie a questi studi ed anche attraverso le pubblicazioni dei suoi gruppi di ricerca, è concorde.
L’INDUSTRIA AGROCHIMICA
I produttori di fitosanitari non hanno bisogno di produrre dati falsi o manomettere le informazioni. Non hanno bisogno di politiche intimidatorie nei confronti degli apicoltori o di chi cerca di screditare i loro prodotti.
Tendono a spostare l’attenzione generale dai loro prodotti verso altre possibili cause, quali la varroa ed i patogeni ad essa connessa, l’uso scorretto degli acaricidi da parte degli apicoltori, le condizioni climatiche, altre malattie dell’alveare e così via.
In casi di evidente connessione tra mortalità massiccia e pesticidi, è colpa dell’agricoltore in quanto non ha utilizzato il prodotto nella maniera corretta oppure non ha la strumentazione giusta.
Secondo gli studi in loro possesso, nonché quelli effettuati da scienziati non a loro connessi, se i pesticidi sistemici vengono utilizzati seguendo le loro istruzioni le morie non accadono. Queste stesse modalità, inoltre, sono permesse dalle linee guida governative.
Fanno direttamente leva sulla complessità della questione per confermare l’innocenza dei loro prodotti. In sostanza, essendo la questione troppo complicata ed intricata, è impossibile dire con certezza quale sia il ruolo dei neonicotinoidi nella questione CCD.
Sfruttano la superiorità e la legittimità delle pratiche scientifiche istituzionalmente accettate ed il consenso scientifico sulla complessità della CCD per mantenere i loro prodotti sul mercato.
Non si può quindi parlare in alcun modo di soppressione o fabbricazione di dati che causano ignoranza in merito alle vere cause della CCD, in quanto il set specifico di norme che stabiliscono cosa può contare come “vera scienza” e come ricerca non legittima sono state stabilite negli anni e con la pratica.
Gli stessi regolamenti stabiliti dall’agenzia EPA si basano su questo gruppo di norme di ricerca scientifica. In aggiunta, EPA è l’arbitro finale che può decidere in merito al mantenimento sul mercato di tutti i pesticidi.
CONCLUSIONE
Non c’è quindi alcun bisogno di improvvisarsi teorici del super mega complotto delle multinazionali come la Bayer e la Monsanto, che tramano tirando le fila dal dietro le quinte, quando stanno letteralmente seguendo le regole.
Gli standard sperimentali e di interpretazione dei dati rendono ad ora improbabile che la ricerca arrivi a trovare le prove che i neonicotinoidi, in quantità basse ed in interazione con altri fattori, possano essere la causa diretta e/o indiretta della moria delle api.
In questo gioco di forza tra tanti portatori di interesse molto diversi tra loro, che spesso non si parlano o che fanno gran fatica a trovare un punto di dialogo, a rimetterci sono le api mellifere e tutti gli altri insetti impollinatori.
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A presto!
Silvia
FONTI
- “Fall-Dwindle Disease”: Investigations into the causes of sudden and alarming colony losses experienced by beekeepers in the fall of 2006.
- A metagenomic survey of microbes in honey bee colony collapse disorder.
- An Estimate of Managed Colony Losses in the Winter of 2006 – 2007: A Report commissioned by the Apiary Inspectors of America
- Loss & Management Survey – Bee Informed Partnership
- Vanishing bees
- Dying Bees and the Social Production of Ignorance
- Be(e)coming experts: The controversy over insecticides in the honey bee colony collapse disorder
- Ignorance and Industry: Agrichemicals and honey bee deaths
- Undone Science: Charting Social Movement and Civil Society Challenges to Research Agenda Setting
- Bees in America: How the Honey Bee Shaped a Nation
- Exposure to clothianidin seed-treated canola has no long-term impact on honey bees
- A three-year large scale study on the risk of honey bee colony exposure to blooming sunflowers grown from seeds treated with thiamethoxam and clothianidin neonicotinoids
- Bitter Honey: A Political Ecology of Honey Bee Declines